La mattina del primo dell’anno sono andata al mio solito bar a fare colazione.
La brioche che mi piace tanto non c’era, di norma mi sarei adattata, ma siccome era il primo dell’anno ho chiesto a Ivana <—– la proprietaria del bar,
– non è che quelle alla crema stanno per uscire? <—- dal forno
Ivana controlla e mi risponde che sì, tra nove minuti.
Nove minuti, un’attesa sostenibile.
– vado a passeggiare con Brasco <—– il mio cagnino e torno.
Sulla mia spiaggia c’era già fin troppa gente; noi si sa viviamo di turismo
<—– scrivo dalla Liguria, però è vero anche che quando il paese si riempie a noi ci girano un po’ le balle <—– torta di riso finita.
Così ingombra di tanto inatteso traffico, non mi resta che affrettare il mio ritorno al bar.
Quanti minuti saranno passati? Più di nove? <—– che poi perché nove e non dieci, numero tondo, meno di otto?
Non so. Comunque rientro.
– è uscita la brioche? domando sorridente
– tra qualche minuto.
– aspetto al tavolo. <—- qui non ero più tanto sorridente
Mi siedo e inizio a smanettare con il telefono per scegliere quale foto appena scattata mettere su instagram <—– ogni mattina da qualche anno ne posto una della mia passeggiata con cagnino.
E mentre penso: che luce di merda <—– riferito alle fotografie, vedo passare un cabaret di brioches, ma della mia crema a proposito di luce —–> nemmeno l’ombra.
– e la crema? mi informo con aria afflitta
– un minutino. <—- un minutino, che significa un minutino? Cinquanta secondi? Quarantacinque? Cinquantanove?
Mentre son lì seduta a contare, sempre più ingobbita<—- e dimentica della postura con i cento euro sotto le ascelle nel mio doloroso aspettare, ecco che sul tavolo si materializza la brioche: è bellissima, cicciona, luccicante e calda, anzi, devo rettificare, non calda, bollente!
Come i pomodorini di Fantozzi, cazzo.
Va detto che io son bocca d’amianto, ma quella maledetta brioche scottava come se, come se <—– come se l’avessero appena tolta dal forno!?
È che avevo già aspettato tanto, non potevo più resistere, così me la sono ingollata nella maniera in cui è arrivata, senza riuscire a cogliere il gusto della crema per cui avevo tanto combattuto, e bruciandomi tutta la lingua.
Voi direte, ma che me ne fotte a me della tua brioche, nulla, lo so bene, è che questa brioche mi ha insegnato due cose importanti che volevo condividere con voi:
1. c’è un certo genere di attesa per la quale non è sufficiente starsene fermi immobili blandamente irritati dei minuti (ore, giorni, mesi) che passano, come se ci trovassimo in fila alla posta per pagare la bolletta del gas.
Aspettare per qualcosa a cui tieni significa riuscire a vivere quei momenti con amore, non subirli, ma restare consapevole di averli scelti, perché è solo te che desidero e non m’importa quanto lungo sarà il viaggio
2. dopo aver aspettato tanto a volte è necessario aspettare ancora, per non bruciarsi la lingua.
Ce lo dicono sempre che c’è un tempo per ogni cosa, solo che quel tempo non è segnalato come sulle ricette di giallo zafferano; quindi non resta che metterci tutta la nostra esperienza, la pazienza e il cuore, pronti a far tesoro degli inevitabili errori di valutazione e pronti, se necessario, a trovare un’altra volta il giusto tempo, per ricominciare tutto daccapo.
Poi ho bevuto il caffè, che per la legge del contrappasso era freddo, ho pagato <—– scavalcando i corpi ciondolanti dei turisti assiepati davanti alla cassa e son tornata al mio mare,
PS una delle poche critiche che mi sento di sollevare nei confronti della rete, è che il subito, a cui ci sta abituando, ci sta rendendo insofferenti all’attesa, che per me è sempre stata la parte più bella di tutto il viaggio.